Intramontabile universalità della Messa in Si minore di Bach

Definita da Johann Christian Bach come la “Grande”, la Messa in Si minore di Johann Sebastian Bach rappresenta una delle composizioni più magistralmente concepite dalla mente umana nell’intera storia della musica: un capolavoro senza tempo e senza confini, capace di restituire l’immagine di un mondo ormai passato e, allo stesso tempo, di far riflettere sul mondo presente. Accanto ad una costante tradizione esecutiva – si segnalano le imminenti rappresentazioni nel bresciano a cura del Coro del Conservatorio “Luca Marenzio” e del Coro “Antiche Armonie” di Bergamo e quella dei Barocchisti a Lugano –, la Messa in Si minore è protagonista di un’instancabile ricerca musicologica, che contribuisce a donare continuamente nuova luce ad un simile capolavoro (e si veda ad esempio La Messa in Si minore di Federico Vizzaccaro, testo in preparazione che, nella sua completezza storiografica, proporrà al lettore un complesso quanto dettagliato approfondimento su ogni problematica della e intorno alla composizione bachiana).

Messa in Si minore: una contestualizzazione

Una delle più diffuse pratiche didattiche e divulgative della musica e dell’arte in genere – come ognuno di noi ha avuto, nel corso della propria vita, modo di sperimentare – prevede una iniziale contestualizzazione dell’opera presa in esame attraverso la generica ma efficace categoria della temporalizzazione della stessa: in altri termini, attribuire immediatamente una data di composizione al lavoro consente tanto allo studioso quanto al lettore di ricevere un preliminare insieme di informazioni, determinato dalle proprie conoscenze pregresse, capace di fornire una lente attraverso cui aspettarsi di poter osservare il prodotto musicale. La Messa in Si minore si dimostra, in questo senso, poco rassicurante: non è possibile, in effetti, attribuirle univocamente una data natale, poiché la sua è una storia di produzione di “lunga durata”, che inizia presumibilmente intorno al 1724 e si conclude poco prima della morte del suo creatore, nel 1749. Non si tratta chiaramente dell’unica composizione che la storia della musica ci restituisce ad essere stata caratterizzata da una gestazione lunga e complessa: per citare un esempio particolarmente celebre, Kreisleriana, pur iniziando ad essere composto da Schumann nel 1838, ebbe una versione definitiva solo nel 1850. Nel caso della Messa in Si minore, però, una condizione “estrinseca” e così apparentemente innocua fornisce un interessante strumento di analisi dell’opera, quasi a voler dimostrare che, al pari del suo statuto interno, le sue vicende squisitamente esteriori non avrebbero potuto fornire che un tale esito. Riportando un concetto espresso da Robin L. Marshall, è possibile sostenere la tesi per la quale l’opera bachiana, nel suo complesso, non giunga mai ad una reale conclusione: così come il procedimento compositivo interno, basato sulla tecnica ormai comunemente nota come Fortspinnung, termine coniato per la prima volta da Wilhelm Fischer – che, dalla stessa parola, in tedesco «sviluppo continuo», prevede un discorso musicale che stenta a fermarsi, che si auto-feconda, in diretto contrasto con ciò che accade nel caso della musica “con cadenze”, costruita intorno ai momenti di fermata – non si arrivi mai ad una reale conclusione, in quanto ogni elemento viene costantemente reinterpretato alla luce di un flusso successivo di note, allo stesso modo Bach prevede una costante rielaborazione dei propri lavori, gli dona continuamente una nuova vita, ed istituisce così un sistema compositivo nel quale la linearità lascia posto ad una circolarità ricorsiva.
Passando dalla teoria alla pratica, e concentrandoci su quanto accade nella Messa in Si minore, la tecnica compositiva alla base dell’intero lavoro è quella della parodia, attraverso la quale il compositore prevede la creazione di un nuovo prodotto attraverso la citazione e/o la rielaborazione di materiale preesistente. La quasi totalità dei brani presenti nella Messa esisteva già, in altra forma e per una diversa destinazione: per citare solo qualcuno tra i numerosissimi riferimenti possibili, il Crucifixus deriva dalla Cantata BWV12; il Domine Deus dalla Cantata BWV193a; Et resurrexit ha i suoi natali nella Cantata BWV Anh 9/I. Si è utilizzato il concetto di circolarità ricorsiva poiché, in effetti, il meccanismo è possibile anche prevedendo l’inversione della direzione: il Gloria di questa Messa, composto nel 1724, fu alla base, ad esempio, di una Cantata del 1745.

Citazioni

Quella tracciata da Bach fu una strada lungamente percorsa dai grandi Maestri della tradizione occidentale, non però senza le opportune differenze. L’Ancien régime, nel suo proporre una «storia ricorsiva» – per utilizzare l’espressione di Reinhart Koselleck – permetteva all’artista di confrontarsi perennemente con sé stesso, senza che ciò implicasse obbligatoriamente una reinterpretazione delle azioni e dei pensieri, in quanto «la storia precedente [alla Rivoluzione francese] restava preparata a tutte le sorprese, perché le sue storie fondamentalmente non si modificavano» (Reinhart Koselleck, Storia. La formazione del concetto moderno, p. 118); i continui richiami che Bach propone all’interno della propria musica, pertanto, possono e devono essere letti nell’ottica di un rifarsi a un passato che, in realtà, nulla dice relativamente al futuro. L’azione di auto- ed etero-citazione ricorrente nella poetica di Beethoven, Schumann, Brahms, invece, pur all’apparenza simile, sottintende una diversa interpretazione della storia, divenuta con la Rivoluzione Francese causa ed effetto dell’agire umano, privandosi quindi di quell’elemento di neutralità che l’aveva fin a quel punto contraddistinta. Prevedere un riferimento al passato, quindi, non era più una modalità “pratica” a cui ricorrere nell’agire compositivo, ma implicava una scelta che, se effettuata, diveniva modalità attraverso cui veicolare un preciso messaggio.

Da un punto di vista squisitamente musicale, la Messa in Si minore si inserisce all’interno di una tradizione, tipicamente dresdiana, che riserva all’impianto corale un ruolo di fondamentale importanza: nello specifico, sono ben 18 i cori presenti nel lavoro, contro le 9 sezioni solistiche. Questo dato sembrerebbe collocarsi in apparente contrasto con il luogo di produzione della Messa che, essendo stata composta negli ultimi decenni di vita di Bach, ha i suoi natali nel territorio di Lipsia. Una tradizione musicologica che assegna al Maestro di Eisenach la veste di un conservativo e tradizionalista compositore, mancante di talune capacità espressive a causa della sua staticità territoriale, non tiene conto delle innumerevoli possibilità di apertura fornitegli dal suo esser stato parte di una delle più grandi corti che l’Impero poteva vantare in quegli anni: Bach, pur non viaggiando fisicamente verso i principali luoghi della tradizione musicale, poté assaporarne le innovazioni attraverso conoscenze e scambi proficui. Tra essi, quello con Antonio Caldara, operante alla corte di Dresda proprio in quegli anni, diede la possibilità a Bach di entrare in contatto con un diverso ambiente e con diversi stimoli, sapientemente sviluppati nella Messa in Si minore.

Quali origini?

Si è voluta lasciare come conclusiva una delle questioni che, in quasi ogni trattazione, conserva invece una posizione quasi di “urgenza”. Perché Bach, da luterano, si cimentò col genere della Messa, così tanto legato alla tradizione cattolica? Da ciò che emerge dalle fonti, sembrerebbe che, a differenza della quasi totalità dei suoi altri lavori – specie quelli sacri – non ci sia stata alcuna commissione specifica anteposta alla composizione della Messa in Si minore; nonostante ciò, vi è da precisare che ciò è vero solo se si considera la composizione come un “tutto”: nel 1733, in effetti, Bach utilizzò le sezioni fin a quel punto composte della Messa per richiedere una maggiore considerazione da parte dell’elettore Federico Augusto II, regnante a Dresda. La mancanza di commissione, quindi, si riferisce all’intero Ordinarium missae e non alle sue singole parti. Avendo già composto altre Missae brevis (caratterizzate dalla sola presenza dei soli Kyrie e Gloria: sono, nello specifico, BWV233, BWV234, BWV235, BWV236), accettate universalmente nel culto luterano, la questione dovrebbe quindi essere posta in modo diverso: perché Bach, senza alcuna necessità pratica, sentì il bisogno di allargare gli orizzonti compositivi, proponendo un’opera apparentemente antitetica rispetto alla propria fede e non richiesta in modo esplicito dai suoi mecenati? Fornire una risposta univoca non è ovviamente possibile, in quanto le motivazioni potrebbero essere diverse e non sempre definibili chiaramente. Certo è che, qualsiasi sia stata l’intenzione originale, la conseguenza di tale scelta ha permesso a Bach di concedere al mondo un lascito quasi testamentario: nella sua completezza timbrica, stilistica, compositiva, nella sua profonda organicità e nel superamento che essa propone dei “confini” imposti dalle credenze umane, la Messa in Si minore rappresenta una summa magistralmente concepita del pensiero bachiano, una modalità per giungere dal terreno al divino, dal particolare all’universale.

Maria D’Agostino