Pianoforte e soggettivismo: Kreisleriana di Schumann

Mai come nel XIX secolo si assistette, nell’ambito della storia della musica, all’accrescersi di importanza di un singolo strumento al punto da renderlo il solo protagonista di nuovi generi innovativi e idiomatici; gli innumerevoli accorgimenti tecnici che lo resero capace di possibilità impensabili negli anni precedenti, il conseguente delinearsi della figura del “virtuoso”, la necessità di rendere la musica a servizio del pubblico con cadenza quasi giornaliera, ma, soprattutto, l’aspirazione dei compositori a tendere verso le più ricche e al contempo intime modalità espressive, fornirono al pianoforte lo slancio adatto a divenire, da semplice supporto per l’accompagnamento quale era nel Settecento, il principe degli strumenti, protagonista indiscusso del panorama musicale – e culturale – del secolo Romantico.

Dal Settecento all’Ottocento

Certo è che le innovazioni non appaiono repentinamente, bensì rappresentano il momento conclusivo di un lungo percorso di impercettibili cambiamenti: le basi per l’emancipazione del pianoforte nell’Ottocento furono poste già a partire dagli ultimi decenni del precedente secolo, ma fu solo con il mutamento della sensibilità artistica – dall’Illuminismo allo Sturm und Drang, in sintesi – che le novità acquisirono un ruolo cruciale non soltanto da un punto di vista tecnico, ma anche filosofico. Lo strumento non era più solo timbro, non poteva essere intercambiabile (come spesso avveniva nella musica da camera del periodo haydniano): esso diveniva adesso la voce dell’autore, il suo alter ego, ciò che assolveva al compito di restituire al mondo esterno l’interiorità dell’artista, molto più, forse, di quanto le parole avrebbero potuto fare in un momento storico nel quale, per utilizzare le parole di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, lo spirito doveva anelare all’«assoluto». Protagonista del periodo di iniziale rinnovamento – più per il suo lascito e per il modo in cui i contemporanei lo percepirono, piuttosto che per le innovazioni da un punto di vista dei generi nei quali il pianoforte venne inserito – fu chiaramente Ludwig van Beethoven. In un’epoca nella quale il concetto di artista ben si sposava con quello di grande demiurgo e illuminante creatore di nuovi lavori, il “mito” beethoveniano si nutrì di quelle composizioni “grandi”, in stile elevato, complesse, quali sinfonie (sia per pianoforte che per altri strumenti), sonate, quartetti; vi furono, però, altri lavori, solo in epoca moderna riscoperti e rivalutati, che, pur non avendo lasciato un segno nella critica del periodo romantico, crearono un ponte per le epoche successive.

Si tratta di brani idiomatici per il pianoforte, come Bagatelle, Rondò, Variazioni, nei quali stile lirico ed elementi della tradizione si fondono fino a creare un nuovo modello compositivo, ove al centro è posto l’autore, con la sua soggettività, e il pianoforte, con le proprie potenzialità. L’avvento della “generazione romantica” (per usare il felice paradigma ideato da Charles Rosen), permise al modello del pezzo caratteristico di affermarsi e prevalere su generi – la sonata, ad esempio –, ritenuti ormai troppo ancorati al passato: fu questo l’ambiente entro cui prosperarono le figure di Chopin, Liszt, Schumann, per le quali risulta faticoso immaginare una separazione tra l’autore e lo strumento, tra l’artista e la sua creazione. Ancora oggi, le stagioni concertistiche si nutrono copiosamente di tali repertori: da segnalare è l’imminente recital per pianoforte in programma per il 21 marzo 2022 presso il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, che vedrà Grigory Sokolov eseguire lavori dei Beethoven, Brahms e Schumann più intimi, più “pianistici” (rispettivamente: 15 Variazioni e Fuga in mi bemolle maggiore sopra un tema dell’Eroica, op. 35; Tre Intermezzi, op. 117; Kreisleriana, op. 16).

Stupisce, forse, immaginare Beethoven come compositore “non titanico”; certamente non è altrettanto inconsueto, per l’ascoltatore moderno, pensare a Brahms e Schumann nelle stesse vesti. È Schumann, però, l’autore nel quale, più di ogni altro, il soggettivismo diviene una componente imprescindibile tramite cui comprenderne parte della poetica, tanto per motivazioni caratteriali e personali quanto, soprattutto, a causa della mancanza, nella sua vita, di una reale adesione ai modelli sociali a lui vicini: specie i lavori del “decennio pianistico” (ca. 1830-1839) nacquero in un contesto di apparente disarmonia tra il soggetto-autore e il pubblico. Schumann proponeva, in effetti, prodotti non solo innovativi nella forma, ma soprattutto nella sostanza: mai fino a quel punto letteratura, arte, filosofia, autorialità, soggettività avevano sperimentato un così stretto legame; mai fino a quel punto l’opera d’arte era stata così tanto poetica, nel senso di musica che si oppone «al prosaico – al banale e meccanico» e che, nel caso di Schumann, «è una poesia fatta di allusioni letterarie e perfino biografiche, di motti, di titoli eloquenti che alle volte sembrano tacere più cose di quelle che esprimono apertamente» (Carl Dahlhaus, La musica dell’Ottocento, trad. 1990, pp. 154-156). Una musica, quindi, che si nutre dell’interdisciplinarietà, senza mai cadere nel programmatico ma che, anzi, fa della compenetrazione con altri saperi il suo tratto distintivo.

Kreisleriana di Robert Schumann

Prototipo per comprendere tali aspetti non può che essere Kreisleriana, opera alla quale è dedicato il significativo testo di Antonio Rostagno. Quale «allusione letteraria e perfino biografica», quale «titolo eloquente» in Kreisleriana?

Sembrerebbe azzardato supporre un’autorialità del lavoro condivisa, tanto più alla luce di quanto precedentemente detto in relazione al soggettivismo delle opere schumanniane; eppure, l’elemento necessario per poter comprendere il senso di questa raccolta risiede, in parte, fuori dall’autore (si comprenderà in seguito il senso del corsivo). Schumann era convinto – non senza ragione – che «capiscono il titolo solo i Tedeschi», poiché il protagonista di Kreisleriana risulta essere (da qui il titolo), un tale Kreisler, personaggio di fantasia nato dalla penna di E.T.A Hoffmann e da lui presentato in più racconti (Fantasiestücke in Callots Manier, Nachricht von den neuesten Schicksalen des Hundes Berganza, Lebensansichten des Katers Murr). Allontanando l’idea di “musica a programma”, totalmente estranea alla poetica schumanniana, quale può essere lo statuto di un’opera nata sotto l’influsso di un fattore esterno? La risposta aiuta anche a chiarire il senso di un’autorialità definibile come in parte condivisa: Schumann sembra trovare nel carattere di Kreisler (un Kapellmeister eccentrico, poco compreso, geniale ma impetuoso, intuitivo ma riflessivo, necessitante dell’approvazione del mondo esterno ma esageratamente dipendente dal suo mondo interiore), ricco di contraddizioni, uno specchio del proprio ego, così come pare rivedersi nella poetica frammentista, antirazionale, poco consequenziale e quasi rapsodica, di Hoffmann. Chi è il soggetto di Kreisleriana? Di chi parla l’opera? Certamente è a Schumann che bisogna rivolgere il proprio pensiero, ma non è possibile ignorare quegli influssi “esterni” – in primis la letteratura, ma ebbe un ruolo cruciale anche la possibilità di esprimersi “senza filtri” attraverso quel pianoforte divenuto ormai simbolo della personificazione dei pensieri dell’autore – che gli hanno fornito un solido substrato cui fare riferimento tanto da un punto di vista musicale che extramusicale.

Il modo in cui la musica diventa specchio della complessità del soggetto è emblematico di un tipo di composizione ormai lontana dalle costruzioni razionali, rettilinee, consequenziali di un periodo “classico”, così vicino eppure così lontano. Gli otto momenti di Kreisleriana appaiono disomogenei, contrastanti, a tratti lirici e a tratti impetuosi; non vi è un apparente filo conduttore e, al posto di fornire all’ascoltatore la possibilità di orientarsi nel lavoro, il materiale sonoro tende al disorientamento, alla contraddizione, alla frammentarietà – termine, quest’ultimo, che più di altri può essere utile ad esprimere un’estetica basata sull’incompiuto, piuttosto che su ciò che Friedrich von Schlegel descriveva come «completamente separato dal mondo circostante e in se stesso compiuto come un riccio» (Athenaeum, framm. 106). Niente si conclude in Kreisleriana, niente è lineare, niente fornisce risposte; piuttosto, in accordo con il carattere del personaggio da cui è tratto il titolo, il senso del lavoro è da ricercarsi nelle strade che si aprono quando ci si allontana dalla ricerca spasmodica di una organicità che, inconsciamente, viene percepita come unico metro di giudizio della percezione e che, invece, risulta in questa occasione riduttiva e limitante. Paradossale appare allora la dedica di Kreisleriana a Fryderyk Chopin, che della linearità melodica – seppur con quegli impeti e quelle novità compositive derivanti dal nuovo linguaggio ottocentesco – fece il tratto caratteristico della propria estetica; pur conoscendo, oggi, le motivazioni contingenti di tale scelta (l’originale volontà di Schumann era quella di dedicare il lavoro alla moglie Clara Wieck, ma dovette desistere a causa delle crescenti tensioni col suocero Friedrich Wieck che, pur essendo stato insegnante di Robert, non ne condivideva l’estetica compositiva e la carriera artistica, slegata dal ricco mondo delle esecuzioni pubbliche e ritenuta del tutto inadatta a provvedere alle necessità di una famiglia), è interessante constatare la presenza di un volto fortemente composito del secolo Romantico. Autori che, nonostante si trovassero in un rapporto dialettico, si sottraggono facilmente alla possibilità di una generalizzazione mediante tratti comuni (Schumann e Brahms, Schumann e Chopin, Chopin e Liszt, solo per rimanere nell’ambito pianistico), dimostrano che mai quanto nell’Ottocento la musica – e l’arte in genere – sia stata caratterizzata dalla necessità di aver a che fare con un soggetto, di esprimere qualcosa che non fosse solo tecnica, ma che avesse radici in ciò in cui l’autore poteva rispecchiarsi.

Una musica, quindi, che non parla più di un “noi”, di un “loro”, ma che finalmente può dire anche “Io”.

 

Maria D’Agostino