Dal giubilo alla morte: la musica sacra nella religione cattolica

Al pari delle arti figurative, dell’architettura, dei momenti rituali, la musica ha da sempre accompagnato l’uomo nella sua necessità di trovare una relazione quanto più possibile autentica con la divinità, un mezzo diretto per esprimere la propria devozione, un ponte sicuro per muoversi dall’immanente all’eterno, dal concreto al trascendente. E non è un caso che, andando dal generale al particolare e destinando una specifica attenzione alla cultura occidentale, il sacro in musica e la musica sacra relativi alla religione cristiano-cattolica (come si vedrà, si tratta di una bipartizione necessaria) rappresentino una porzione consistente – se non la più consistente, almeno per ciò che trasmettono le fonti – del repertorio musicale nella sua totalità.

Le origini

È noto ai più che la prima forma di musica sacra a noi tramandata fu il canto della liturgia romana, meglio conosciuto con l’epiteto di canto gregoriano. Così definito per via di una leggenda, tramandata da Giovanni Imonide, la quale attribuiva al papa Gregorio VIII l’organizzazione dei canti liturgici secondo le parole dello Spirito Santo, tale repertorio rappresenta probabilmente un’evoluzione e un perfezionamento dell’insieme dei canti propri della tradizione cristiana di romani e carolingi, avvenuta in seguito alla creazione del Sacro Romano Impero; canti che, da un punto di vista stilistico, vennero codificati proponendo un’unica linea melodica, espressa all’unisono da sole voci maschili e secondo un andamento molto prossimo al declamato.
Allontanando la pretesa di voler restituire un’immagine del tutto completa del repertorio sacro, che peraltro sarebbe impossibile delineare in questa sede, la definizione appena fornita di canto gregoriano è utile per chiarire un aspetto di sostanziale importanza che ritornerà più volte nel corso della trattazione. Il canto gregoriano assolveva ad una funzione liturgica: in altri termini, esso veniva sfruttato durante i momenti nei quali era richiesta la presenza del canto durante le celebrazioni che, durante il medioevo – periodo del quale si sta, appunto, discutendo – potevano essere distinte tra le Liturgie delle Ore e le Messe. Accanto a tali momenti “istituzionali”, però, si concretizzavano una nutrita schiera di ulteriori situazioni durante le quali l’atto del canto diveniva una componente indispensabile: così Inni, Salmi, Canti vari, accompagnavano la vita del fedele, divenendo parte integrante della preghiera, secondo una celeberrima affermazione attribuita a S. Agostino d’Ippona, per la quale «il cantare è proprio di chi ama» (erroneamente nota come «chi canta prega due volte»). Nel corso dei secoli, complice anche una necessaria opera di scrittura del repertorio fino a quel momento trasmesso oralmente, si assistette ad un sempre più evidente perfezionamento del linguaggio musicale; le innovazioni non lasciarono indifferente il mondo della musica sacra: anzi, considerando la tardiva emancipazione del repertorio profano da una condizione di mero momento di convivialità e svago, fu proprio dal sacro che la musica occidentale trasse la spinta per potersi evolvere. Tale crescita fu, comunque, per lo più interna: così come le funzioni liturgiche non hanno subìto, nel corso dei secoli, una sostanziale trasformazione – semmai un semplice allineamento alle esigenze del mondo esterno, come si può constatare per il mutamento di linguaggio da latino ad italiano in seno al Concilio Vaticano II –, allo stesso modo la musica sacra (che, citando l’Enciclopedia Treccani, definiamo come quella «destinata alle funzioni del culto [canti liturgici, messe, mottetti] ecc.») ha modificato il modo di parlare al popolo, andando verso una sempre più specialistica tipologia di scrittura, ma non ha mutato il suo messaggio. In altre parole, è possibile tracciare una linea che congiunge, idealmente, Magister Leoninus a Schumann, i fiamminghi a Beethoven.

Posta, quindi, l’immutabilità di repertorio “istituzionale” – considerando che, in realtà, si assistette di tanto in tanto alla creazione di nuovi generi, come dimostra il caso eclatante del mottetto, composizione polifonica e spesso politestuale nata in seno all’Ars Antiqua dalle sezioni più contrappuntisticamente complesse dei generi ecclesiastici “tradizionali” e spesso usata anche in modo indipendente rispetto alle funzioni liturgiche –, sarebbe scontato immaginare una tale immutabilità anche da un punto di vista ermeneutico: alla domanda “qual è il senso di questa musica?” si dovrebbe quindi replicare sempre allo stesso modo, ovvero che la musica sacra ha senso se inserita nella funzione nella quale serve. La risposta è ineccepibile, ma è possibile scendere ancor di più nel dettaglio per definire un ulteriore aspetto e aggiungere significato alla trattazione.
Domandandoci “in che modo una musica può essere sacra?” ci stiamo essenzialmente chiedendo: una musica può essere sacra anche al di fuori dell’ambito delle funzioni alle quali è stata da sempre legata? Un paragone può forse meglio descrivere il concetto. Le Chiese sono i luoghi di culto per eccellenza, adibiti istituzionalmente alle funzioni ecclesiastiche; la loro sacralità, però, è definita anche da peculiarità architettoniche che cercano di elevare un semplice edificio al massimo luogo sacro (come dimostrano la maestosità e la magnificenza delle strutture): allo stesso modo, la musica sacra è tale nella sua funzione, ma lo è anche grazie all’osservanza compositiva che la contraddistingue, alla volontà di amplificare, tramite il linguaggio, il significato della Scrittura, nonché all’indiscutibile complessità armonico-contrappuntistica presente, quasi come a voler destinare il repertorio ad un’Entità superiore, non soggetta alle medesime leggi dell’uomo.

Quale musica sacra?

Ma, accanto a quanto accade durante le celebrazioni, bisognerebbe discutere dell’evoluzione del repertorio “altro”, quello più intimo, più meditativo, più popolare, a volte.
Sono innumerevoli le composizioni che contengono il sacro come matrice di ispirazione. Numero però elevatissimo di esempi si ritrovano se, restringendo lo sguardo, ci si concentra su quanto accade nella musica di ispirazione pasquale: per il cattolicesimo, in effetti, il periodo di Quaresima e la conseguente Pasqua, alla quale ci si avvicina in questi giorni, rappresentano i momenti più importanti ed intensi dell’anno liturgico, tanto più perché celano il Mistero dell’intera fede; rifacendoci alla celeberrima asserzione prima citata, che dimostra quanto «chi canta prega due volte», ecco allora che è possibile immaginare il motivo dell’attenzione che i compositori hanno dedicato specificamente al culto pasquale. Musica intrisa di dolore e di speranza, quella a cui facciamo riferimento: è il topos della morte, però, quello che ricorre più frequentemente. Così, accanto agli esempi più famosi (e, in realtà, “istituzionali”, essendo parte di una specifica liturgia), quali quello del Requiem – la Missa defunctorum alla quale compositori diversi ed in diversi periodi si approcciarono, da Mozart a Verdi, da Ockeghem a Fauré, ed alla quale è dedicato il libro di Simone Caputo, Dies Irae – Requiem in musica dal Cinquecento all’Ottocento –, si possono citare numerosissimi brani di ispirazione sacra: dall’inno Stabat Mater, musicato innumerevoli volte nel corso dei secoli; alle Passioni (pur professando il culto luterano, come non nominare, a tal proposito, Johann Sebastian Bach?); alle Sonate da Chiesa sei-settecentesche, alcune destinate solo idealmente al mondo ecclesiastico (per l’osservanza compositiva, ad esempio), altre invece, come dimostra il famoso caso della RV 130 di Antonio Vivaldi “Al Santo Sepolcro”, esplicitamente ispirate a tali momenti.

Infine, osservando la questione da un’altra prospettiva, ci si può domandare quanto abbia influito, in un contesto sociale – quello italiano – fortemente influenzato da aspetti religiosi, il periodo quaresimale rispetto a generi che, apparentemente, sembrerebbero antitetici rispetto all’osservanza che la sacralità di base richiede. A tal proposito, tralasciando il caso dell’Oratorio, nato con l’obiettivo di avvicinare, in modo meno formalizzato, le masse all’ascolto delle Sacre scritture, il caso più eclatante è sicuramente rappresentato dal repertorio operistico che, già dai suoi primissimi anni, non mancò con grande sorpresa di dimostrare il suo legame con la religione e la sacralità in genere; in tal senso, il testo di Franco Piperno La Bibbia all’opera. Drammi sacri in Italia dal tardo Settecento al Nabucco offre una panoramica dettagliata, anche e soprattutto in funzione alla Quaresima. È facilmente immaginabile la derivazione economica e sociale della scelta di portare gli spettatori a teatro anche durante i giorni considerati come i più sacri dell’anno liturgico, specie per «non lasciare al pubblico […] opportunità di incontro e di svago diverse da quelle direttamente emanate dal potere» (p. 52); in questo senso, quindi, l’ispirazione sacra sarebbe essenzialmente una modalità, implicitamente o esplicitamente richiesta, di non allontanarsi eccessivamente dal clima di raccoglimento che i fedeli sentivano di dover mantenere, e anzi atta ad incentivare la partecipazione alle rappresentazioni, in quanto naturale prolungamento delle liturgie alle quali si partecipava durante la giornata. Nonostante ciò, non è possibile tralasciare una componente di emozionalità e devozione alla quale i compositori e gli ascoltatori si appellavano per trattare di vicende così fortemente sentite: ad esempio, specie il tema della morte, ancora una volta, rimaneva costante, e lo si può dire di lavori composti nel Settecento quanto di quelli prodotti in anni successivi (Mosè in Egitto di Rossini, Nabucodonosor di Verdi, solo per citare gli esempi più noti al grande pubblico).

È un’impresa ardua approcciarsi allo sterminato insieme di brani musicali che fecero della relazione col sacro il proprio tratto distintivo. È, però, un repertorio accomunato da medesimi sentimenti e, pur nascendo, come si è visto, per e in contesti differenti, cela dentro sé l’infinità delle combinazioni possibili, accompagnando il fedele lungo il suo cammino e per ogni suo stato d’animo, dalla gioia al dolore, dal giubilo alla morte.

Maria D’Agostino