La sfiducia nel potere politico e religioso in Aida

Aida, opera di repertorio tra le più eseguite di Giuseppe Verdi, andò in scena in prima assoluta il 24 dicembre 1871 al Teatro dell’Opera del Cairo su commissione del viceré d’Egitto, il khedivè Isma’il Pascià. Composta su libretto di Antonio Ghislanzoni, arrivò in Italia solamente qualche mese dopo, l’8 febbraio 1872, al Teatro alla Scala di Milano. Divisa in quattro atti, presenta una struttura molto complessa e, tra le sue particolarità, è riscontrabile una visione pessimistica del potere politico e religioso.

La disillusione politica

Dopo gli entusiasmi e i fervori risorgimentali, a seguito dell’Unità, il compositore di Busseto, nonché deputato del primo parlamento italiano che proclamò Vittorio Emanuele Re d’Italia, aggiunse alla sua pregressa sfiducia del mondo teatrale anche quella verso la politica dei primi governi unitari. Maturò, inoltre, come molti italiani del tempo, un astio sempre maggiore nei confronti della religione e della Chiesa cattolica di papa Pio IX. Era lui che aveva mantenuto divisa l’Italia fino alla presa di Roma e che oltre alla emanazione del Sillabo aveva proclamato l’infallibilità pontificia con il Concilio Vaticano I.

L’interno dell’opera

Se l’intera vicenda dell’opera è ambientata in un Egitto mitico e ideale «a Menfi e a Tebe all’epoca dei faraoni» e ruota intorno al triangolo amoroso formato dalla principessa Amneris, Aida sua schiava etiope e il condottiero Radames, “oggetto” di contesa tra le due donne, un ruolo di grande rilevanza è ricoperto dalla casta dei sacerdoti guidati da Ramfis. Essi infatti sono gli antagonisti della vicenda, Amneris infatti li chiamerà «tigri infami di sangue assetate», «inesorati ministri di morte» ed «empia razza», e coloro che di fatto detengono il potere tanto da condannare Radames come “traditore della patria” ad essere sepolto vivo.

I rappresentanti del potere

Tra le tematiche di quest’opera può essere individuata una critica e denuncia verso una dinamica del potere che, anziché agire nei confronti della felicità del singolo individuo, vi si oppone. Questa presenza opprimente è rappresentata in primo luogo dalle cariche istituzionali presenti in scena, in misura minore dal re, che viene presentato senza un nome proprio, dalle sacerdotesse che inneggiano al dio Fthà e dai sacerdotiMusicalmente questi ultimi sono caratterizzati da un loro tema identitario la cui melodia granitica procede per gradi congiunti discendenti ed è spesso reiterata secondo i principi imitativi del canone. Anche a livello orchestrale la manifestazione di questa oppressione autoritaria avviene attraverso l’utilizzo di ottoni e timpani e l’utilizzo dell’intero organico in determinati punti.

Nei primi due atti dell’opera il potere si manifesta attraverso grandi scene corali e celebrative che culminano nel famoso e imponente Finale II con la marcia trionfale, espressione massima della forza sacerdotale. Già in questa sezione essi manifestano la loro ferocia; infatti, a seguito della struggente richiesta di perdono da parte dei prigionieri etiopi, Aida e il loro re sotto mentite spoglie Amonasro, i freddi e cinici sacerdoti si esprimono a gran voce: «struggi, o re, queste ciurme feroci, / chiudi il core alle perfide voci». Questa reazione di grande impeto viene sostenuta appunto dagli ottoni ed è talmente esagerata da suscitare l’indignazione del popolo che risponde: «sacerdoti, gli sdegni placate, / l’umil prece dei vinti ascoltate».

Il tragico epilogo

Nella “scena del giudizio” nella prima metà del IV atto si assiste alla vittoria definitiva del potere asfissiante sui tre protagonisti che non rimangono altro che delle povere vittime. Amneris, angosciata per le sorti dell’amato invoca pietà verso i «Numi» mentre i sacerdoti rappresentati dal loro tema, che compare in misura sempre più massiccia fino ad essere eseguito “a tutta forza” dalla piena orchestra, sentenziano la condanna di Radames.

Infine, a conclusione dell’opera, nel celebre duetto in cui Aida muore tra le mani del suo amato, mentre Amneris, al di sopra della tomba, è condannata a una vita di rimorso, sono assenti le sonorità imponenti degli ottoni; riecheggia però fino all’ultima misura l’inno delle sacerdotesse all’«immenso Fthà» impassibili alle vicende dei tre poveri sventurati: il potere ha vinto.

 

Piergiuseppe Lofrumento