Il Beethoven di Schubert

Dei numerosi eventi in occasione dei duecentocinquant’anni dalla nascita di Beethoven, per ovvi motivi una gran parte è stata rimandata al genetliaco successivo, celebrato il 16 dicembre scorso. Prolungati di un anno, convegni e concerti si sono avvicendati cercando da una parte di assestare ciò che tempo ci è noto e dall’altra, al contrario, provando a rileggere secondo nuovi parametri la figura beethoveniana. Entrando in quest’ultimo orizzonte, già Dahlhaus sosteneva che «si è riflettuto di rado a quel che è andato perso da quando si è stabilita la tradizione beethoveniana», lasciando evidentemente fuori qualcosa in favore di qualcos’altro. Ciò non valeva solo per le opere, ma la stessa figura beethoveniana è stata infatti rigidamente incastrata dentro la titanica costruzione di compositore-demiurgo. Proprio intorno alla riformulazione del giudizio sulla musica di Beethoven si interroga anche Alessandro Arbo il quale dedica alla questione il capitolo Beethoven fra Nietzsche e Michelstaedter nel suo Il suono instabile. Saggi sulla filosofia della musica nel Novecento.

Beethoven per Schubert

Pertanto, un punto di vista peculiare da cui poter osservare ancora una volta Beethoven potrebbe essere quello collocato all’esterno di sé, ad esempio negli occhi e nella vita di Franz Schubert e nell’influenza che il primo ha avuto per quest’ultimo. Da sempre giudicati immensamente distanti, i due compositori si trovano invece a condividere gli stessi anni nella stessa città che ancora oggi continua ad ospitarli:

Il musicista che visita Vienna per la prima volta può bearsi per un po’ di tempo del festevole rumore delle strade e spesso fermarsi ammirato davanti al campanile di Santo Stefano si ricorderà che non lontano dalla città si trova un cimitero, più importante per lui di tutto ciò che la città ha di più notevole, dove due dei più grandi spiriti della sua arte riposano a pochi passi soltanto l’uno dall’altro. Come me, più d’un giovane musicista dopo i primi giorni di stordimento, sarà andato al cimitero di Währing, per porre su quelle tombe un’offerta di fiori, fosse pur soltanto un mazzo di rose selvatiche, come ne ho trovate piantate vicino alla fossa di Beethoven. La tomba di Franz Schubert era disadorna. Alfine s’era compiuto un fervido desiderio della mia vita ed io contemplai a lungo le due tombe sacre, quasi invidiando quel tale, un conte O’ Donnel se non erro, che giace proprio in mezzo a loro.

D’amore e dolore è imbevuto questo incipit del famoso articolo di Robert Schumann sulla Sinfonia in do maggiore di Schubert pubblicato il 1840 sulla sua «Neue Zeitschrift für Musik» e che sente necessità di registrare, pur dovendo parlar d’altro, un intimo rapporto tra i due. Infatti nonostante ai tempi dell’Imperial Regio Convitto Schubert avesse speso parole non lusinghiere nei confronti di Beethoven, crescendo sviluppò un’attrazione incontenibile verso quel pianeta che risultava a tutti così affascinante per quanto lontano. Forse spinto da un senso di legittimazione verso il collega più anziano, Schubert decise persino nel 1822 di dedicare a Beethoven una delle sue prime opere a stampa, le Variazioni per pianoforte a quattro mani op. 10 D. 624, scritte nel settembre del 1818. Storia vuole che vennero recapitate de visu dallo stesso Schubert e su quest’ultimo episodio gli aneddoti si sprecano: per Anton Schindler durante l’incontro Beethoven avrebbe segnalato a Schubert un’«inesattezza armonica» gettando quest’ultimo in un’angoscia tale da non voler mai più rincontrare il primo; corregge poi il tiro Alfred Einstein sostenendo che il compositore di Bonn al massimo avrebbe potuto far notare a Schubert la «mancanza di audacia» rispetto a quella composizione. Ad ogni modo – e al netto della dubbia veridicità di tali aneddoti –, se è vero che Beethoven ci viene restituito nei soliti panni burberi e misantropi, è altrettanto vero che nei fatti non si interessò mai realmente a Schubert, permettendo alla storiografia di leggerci dentro una sorta di rapporto oppositivo. D’opposizione sembrano in effetti alcuni nodi biografici: mentre Beethoven compone la Nona, Schubert si ammala di sifilide dopo il secondo viaggio nell’Alta Austria; alle prime esecuzioni della Missa Solemnis, corrisponde la sua crisi depressiva dopo l’innamoramento di Karoline Esterhazy; quando Beethoven compone il Quartetto op. 130, Schubert crede di essere guarito ma dopo il terzo viaggio nell’Alta Austria la malattia sifilitica ritorna più forte di prima; infine proprio mentre Beethoven compone i Quartetti op. 133 e op. 135, Schubert nel 1826 concorre invano sia al posto di vicemaestro di cappella a corte che a quello di direttore d’orchestra nel Teatro di Porta Carinzia – mentre in quest’ultimo caso gli fu preferito un altro concorrente, nel primo il posto non fu nemmeno assegnato.

Le relazioni musicali

La svolta nella vita di Schubert avvenne il 26 marzo 1827: il giorno della morte di Beethoven. Se da una parte questo fu per lui un evento di immenso impatto emotivo – Schubert fu uno degli otto musicisti incaricati di portare la bara –, dall’altro è qui che mutò il suo modo di intendere la figura beethoveniana. L’evento fu infatti in qualche modo liberatorio per il compositore, laddove per libertà non si intende da Beethoven ma, al contrario, libertà di poterci riflettere su: tra la data di morte di Beethoven e quella di Schubert corrono solo venti mesi durante i quali Schubert produsse tutto ciò per il quale viene ricordato oggi, ed è proprio qui che la riflessione su Beethoven matura. Delle ultime tre sonate schubertiane, l’incipit della sonata D. 958 richiama quasi nota per nota l’inizio delle Trentadue variazioni per pianoforte in do minore di Beethoven, e a tratti anche la Sonata n. 8 op. 13; oltre a questo luogo, dalla D. 959 farebbe capolino la Sonata op. 27 n. 2, mentre dalla D. 960 da subito il Trio per archi e pianoforte op. 97 , poi il Quinto concerto per pianoforte e, nell’ultimo movimento, il Quartetto op. 130. Non più dediche dunque: Schubert cambia il modo di interagire con Beethoven portandolo dentro le sue composizioni tramite citazioni che, in molti casi, conservano la stessa posizione e tonalità dell’opera originaria; se da una parte Schubert riconosce dunque la forma beethoveniana, dall’altra ne allenta però i legamenti, le transizioni e gli sviluppi, cioè tutto ciò che la teneva insieme.

In conclusione, potremmo dire che se è lecito parlare di un’“angoscia di influenza” che la figura di Beethoven avrebbe esercitato su Schubert, è altrettanto lecito sostenere che questo è solo un elemento di un rapporto più ampio e complesso. Al netto dell’impossibilità di ignorare il peso della figura beethoveniana, sembra infatti che Schubert al contrario  – dopo la morte di Beethoven – trovi lo spazio necessario per rifletterci sopra rileggendo la cultura dialettica beethoveniana in funzione della propria mentalità «senza storia dialettica», come direbbe Adorno. In altri termini, più che il prodotto di un’influenza, Schubert ci restituisce un’opinione critica su Beethoven e sulla cultura illuminista che lo anima, ma nella quale Schubert non riesce a credere.  

Matteo Chiellino