Lo Schubert di Berio: Rendering  

Nell’appuntamento dello scorso 25 aprile al Teatro Carlo Felice di Genova, Fabio Luisi ha diretto – insieme alla Quarta Sinfonia di Robert SchumannRendering di Luciano Berio. Eseguita nel giorno della 77° Festa della Liberazione, la composizione potrebbe rivelarsi particolarmente adatta all’occasione per il dialogo che di per sé attiva con il concetto di Storia e per l’esigenza di “presidio critico” che richiede all’ascoltatore verso di essa.

Luciano Berio – del quale il testo Italia / Francia – Musica e cultura nella seconda metà del XX secolo offre un profilo nel rapporto con il compositore e amico Pierre Boulez – compone Rendering mutuando i tre movimenti dalla partitura – non completa e frammentaria – della Sinfonia in re maggiore D. 936 A di Franz Schubert. Lungi dall’essere una Decima Sinfonia “completata”, Rendering è al contrario una composizione autonoma con un altrettanto autonomo obiettivo: offrire una riflessione sulla Storia passando attraverso quella già offerta da Schubert nella sua Sinfonia.

Trattandosi dunque di un’altra composizione rispetto al referente schubertiano ma al tempo stesso dipendendo da esso, il senso di Rendering può emergere più chiaramente se letto “in controluce” rispetto a quello della Sinfonia schubertiana, tenendo presente di quest’ultima soprattutto la sua struttura formale.

Rendering “in controluce”

Durante l’ascolto di una composizione musicale, infatti, una possibile guida è stabilita proprio dall’articolazione formale del brano. Essa ne scandisce non solo l’atto compositivo ma, a lungo andare, educa le nostre aspettative, tracciando una griglia di attese in base alla quale ci orienteremo nella musica. La forma-sonata, ad esempio, ci ha abituato ad attendere un preciso succedersi degli eventi: primo tema, secondo tema, sviluppo e ripresa. Ma nel momento in cui la memoria di ciò che dovrebbe essere non coincide più con ciò che è, siamo chiamati a riflettere sui nostri schemi d’attesa, porci delle domande e, ancor più importante, a ricalibrare après coup il senso di ciò che abbiamo ascoltato prima, in funzione di ciò che ora disattende le nostre aspettative. In altre parole, siamo chiamati a metterci in critica.

Dietro tale ipotesi di “violazione della forma” – qui usata come pretesto d’avvio del discorso –, è chiaro si nasconda un terreno culturale che determina le scelte compositive di Schubert e, di conseguenza, anche di Berio. Concentrandoci sul primo movimento, negli autografi della Sinfonia D. 936 A notiamo infatti che Schubert attua delle “deviazioni” rispetto al modello tradizionale di forma-sonata, sopprimendo determinate sezioni e modificandone delle altre: sono assenti i collegamenti tra i temi, lo “sviluppo”, e manca anche una vera e propria “ripresa”. In verità, queste scelte non sono dissimili da quelle intraprese nelle ultime tre sonate per pianoforte – una per tutte la D. 959 – nelle quali l’autore rifiuta il confronto dialettico dello “sviluppo” e, dunque, anche la possibilità che dopo di esso possa esserci una pacificazione unitaria delle parti prima in lotta. Reso evidente anche da uno sguardo al rapporto tra Beethoven e Schubert, sappiamo infatti che Illuminismo e Restaurazione sono per quest’ultimo momenti in cui non è possibile credere e, giunto al tanto terribile quanto fecondo 1828 (anno di composizione della Sinfonia D. 936 A ma anche della sua morte), va manifestando una coscienza autistica e anti-civile intrisa di malinconia e rassegnazione verso qual si voglia progresso dialettico.

Nonostante andiamo riferendoci a una bozza che sarebbe dovuta essere certamente altro nella redazione finale, notiamo che le mancanze sono infatti strutturali, e non casuali. Oltre all’assenza dello “sviluppo” – in quanto momento in cui la ragione, per l’appunto, si sviluppa – e dei collegamenti tra i temi, manca anche la “ripresa”, da sempre il punctum dolens della forma-sonata. La riaffermazione di qualcosa già detto attiva infatti un’apertura di senso difficile da piegare al proprio discorso poetico. Se per Schubert quest’ultima è infatti una sintesi unitaria da rifuggire, per l’Adorno che legge Beethoven – rapporto ben contestualizzabile grazie al testo Il suono instabile. Saggi sulla filosofia della musica nel Novecento – è invece un’imposizione della ragione borghese che vuole affermarsi sul materiale, imponendo così le proprie origini: «Nella ripresa la musica rimaneva, come rituale della libertà borghese, simile alla società in cui essa è e che è in lei, schiava dell’illibertà mitica».

Individuato il senso generale delle scelte schubertiane tramite il confronto con il modello tradizione di forma-sonata, è interessante rintracciare se e in che misura tali scelte si siano conservate nella composizione di Berio, muovendoci dunque a cavallo tra i due primi tempi delle rispettive composizioni.

Una breve analisi

L’”esposizione”, primo luogo del modello tradizionale della forma-sonata, è occupata da un Allegro Maestoso diviso in due sezioni: quella che ruota intorno al primo tema e quella che ruota intorno al secondo. In Schubert la prima sezione ci restituisce un incipit largo e declamato del primo tema, che prende poi velocità variandosi anche in minore; passando alla composizione di Berio, quest’ultimo conferma Schubert rispettando esattamente le stesse scelte. Nella seconda sezione, Schubert espone il secondo tema ma rimanendo fermo, bloccato, intrappolato nella propria non-volontà di sviluppo; stanco, cambierà strada solo con l’arrivo del nuovo – meraviglioso – tema “trionfale”. Berio invece, nel trattare il secondo tema, trova subito una via di uscita all’impasse del materiale schubertiano, elaborandolo con inserti del primo. Così facendo, costruisce un’orchestrazione densa di stratificazioni tematiche che, fungendo anche da collegamento verso l’Andante, da una parte mette in risalto l’impasse “psicologico” di Schubert e dall’altra organizza un ascolto auratico – come direbbe Helmut Friedrich Lachenmann –  che rinforza di senso il ritorno all’autografo schubertiano e, dunque, l’arrivo del nuovo tema “trionfale”. Concluso il secondo tema, in Schubert non troviamo materiale di collegamento verso il successivo Andante; Berio invece, come già accennato, lo aggiunge sviluppando il materiale che proviene dalla fine della seconda sezione.

Laddove ci aspetteremmo lo “sviluppo”, troviamo un Andante a cui Schubert affida una sorta di corale per tromboni in Si bemolle minore. Berio conferma Schubert mantenendo la sezione intatta – seppur abbreviata – ma collocandola “in aura”, grazie allo straniamento prodotto dalla precedente orchestrazione “cluster” da cui proviene. Nel Presto, Schubert sottrae alla forma-sonata la “ricapitolazione”, ultimo momento previsto dallo schema formale tradizionale. Al suo posto, troviamo dei moduli di sintesi tematica che fungono da “coda”, quasi un’ombra della “ripresa”. Berio in questo caso conferma la scelta schubertiana ma aggiunge, centellinando, temi già ascoltati.

Come emerso da questa rapida analisi del primo movimento delle due composizioni, se da una parte Berio lavora con le attese derivanti dalla forma-sonata, dall’altra è sulle scelte compositive di Schubert che incardina il proprio pensiero critico. Il compositore conferma, evidenzia, critica, mette in luce mancanze, modifica sezioni, modella temi, ma sempre garantendo l’identità di Schubert e salvaguardando la sua visione del mondo. Con Rendering veniamo immersi infatti in un laboratorio che trova la propria ragion d’essere nello stare costantemente tra due identità storiche grazie a una scrittura che conserva in maniera riconoscibile la composizione originaria, ma che se ne allontana episodicamente con aggiunte in un linguaggio diverso da quello del referente. All’ascoltatore è richiesto per questo uno sforzo, una responsabilità, al fine di posizionarsi correttamente in mezzo alle due opere, le quali dovranno coesistere nella sua memoria per permettere un gioco di continua entrata e uscita dall’una per l’altra.

Arte che spiega arte

Messa in salvo l’identità del referente, Berio può mostrarci così la funzione storica di Schubert dopo Beethoven e, dunque, dopo la crisi della ragione illuministica kantiana di cui quest’ultimo si faceva portatore. Il luogo più suggestivo di questa operazione sono senz’altro gli “sviluppi”, sistematicamente evitati da Schubert anche a costo di girare intorno allo stesso tema per svariate misure. Berio qui non stravolge l’immobilità schubertiana, tutt’altro: da una parte evidenzia i “non-sviluppi” e dall’altra – in certi casi – li “svolge” con un linguaggio diverso da quello schubertiano che permette così la messa a distanza necessaria a far emergere la propria riflessione sul pensiero schubertiano senza che questo perda la propria riconoscibilità.

Così intensa, l’operazione di Berio è distante dal rischio di futurismo, presentismo o passatismo, al loro posto l’autore costruisce un’azione critica che, attraverso la profondità storica del suono, attiva una continuità con il passato, obbligando sia l’ascoltatore che il compositore a una responsabilità verso il proprio presente. Come se ciò non bastasse, Berio raggiunge questo risultato non “a parole”, ma facendocelo sentire: non una riflessione dopo o su l’arte – che vivrebbe quindi di un altro tempo –, ma arte che spiega arte.

In conclusione, Rendering ci restituisce uno Schubert esposto nella propria identità storica, disarmato nel conflitto tra la ragione e la sua negazione, ce ne vengono mostrati i contorni e scolpite le forme. Non per questo però Berio si concede la possibilità di allentare la presa critica sul presente, al contrario decide di “vestire” Schubert coi panni di un intellettuale dell’oggi, che sente come tale il bisogno di metterci in guardia sul comportamento della Storia. Passando attraverso la Sinfonia D. 936 A, Berio supera dunque la delusione schubertiana verso la nuova Geschichte conservandone però il monito critico necessario a offrirci, in sintesi, una riflessione su Schubert e la sua critica all’Illuminismo oggi.

 

Matteo Chiellino