Gilda e l’assenza del nome nel Rigoletto di Giuseppe Verdi

«Il brutto, il deforme», il doppio e il senza-nome

Rigoletto, tratto dal dramma di Victor Hugo Le roi s’amuse (1832), andò in scena alla Fenice di Venezia nel 1851 con musica di Giuseppe Verdi e libretto di Francesco Maria Piave. L’opera portò in palcoscenico il grottesco shakespeariano assunto da Hugo a nuova categoria estetica nella Prefazione al Cromwell del 1827. Essa inaugurò la “Trilogia popolare” verdiana, che proseguirà con Il trovatore (1853) e La traviata (1853). Volgendosi verso gli affetti privati, Rigoletto affronta il rapporto genitori-figli, trattato da Verdi anche nel 1849 con Luisa Miller.

Rigoletto, deforme nel corpo e nello spirito a causa del suo ruolo di buffone alla corte del libertino Duca di Mantova, viene colpito da un destino terribile: nell’intento di vendicarsi del Duca per aver disonorato la figlia Gilda, diventa il responsabile della morte della fanciulla. Prima del tragico epilogo, Rigoletto aveva mantenuto divisa la sua doppia vita: da una parte buffone e cortigiano, «fou» complice dell’ambiente abbruttito e perverso della corte; dall’altra, una volta oltrepassata la porta di casa, padre amorevole che cerca di proteggere la figlia, emblema della purezza, dalla corruzione del mondo esterno, incarnato dal Duca. Un padre ossessionato dal desiderio di protezione da tenere Gilda rinchiusa in casa, negandole la conoscenza del mondo.

La fanciulla non conosce il nome del padre né quello della madre morta, non ha alcuna notizia della sua famiglia e delle sue origini. L’assenza del nome corrisponde al non conoscere le proprie radici e, quindi, se stessi.

Il “non sapere”

Nel duetto del I Atto con Rigoletto, Gilda cerca di ottenere queste informazioni, che le vengono perentoriamente e ripetutamente negate. A livello musicale, Rigoletto interrompe costantemente la linea vocale di Gilda, la quale sembra quasi incapace di poter sostenere una melodia da sola. Il materiale musicale che canta è una derivazione da quello di Rigoletto, cosa che evidenzia la totale assenza di personalità, anche musicale, del personaggio femminile.

L’isolamento di Gilda è totale, rinchiusa in una torre metaforica di “non sapere”. Ella appare dipendente dai personaggi maschili, in primo luogo da quel padre per lei senza nome. L’unico a soddisfare la sua ripetuta richiesta di conoscenza è il giovane conosciuto in chiesa e che si presenta all’improvviso davanti a lei, nella sua casa.  Il giovane le fornisce, però, il nome sbagliato: «Mi nomino… Gualtier Maldè… studente sono… e povero». Sotto le sembianze del povero studente si cela il Duca di Mantova, degno discendente del libertino Don Giovanni, un «carattere nullo» senza alcuna profondità e personalità, per il quale una donna vale l’altra e conta soltanto il piacere della conquista.

Il nome dell’amato

Nel duetto, invadendo lo spazio personale del soprano, il Duca interrompe i pensieri di Gilda perfino pronunciando «T’amo» al posto della fanciulla. Gilda dimostra la sua immaturità riprendendo la melodia del Duca o presentando brevi e timidi frammenti melodici («Ah, dei miei vergini sogni») oppure limitandosi a un’eco nella cabaletta Addio, addio, finché i due personaggi non cantano insieme. Questa dipendenza a livello musicale mette in luce in maniera speculare il rapporto di Gilda con le due figure maschili, il padre e il Duca.

Lasciata da sola, Gilda intona la sua prima aria Caro nome, che si apre delicatamente con gli arpeggi del flauto. Gilda, come Giulietta nella celebre scena del balcone, ripete sognante il nome dell’amato. Nel dramma di Hugo, Blanche non ha più di sedici anni; è il suo primo amore, un amore puro e infantile, ingenuo come la protagonista. Il canto di Gilda riflette queste caratteristiche, plasmando l’intera aria in un «intreccio di fantasie di semicrome intorno al nome del suo amato» (J. Budden).

Omissione e cambiamento

L’unico punto in cui il libretto di Piave e il dramma di Hugo non coincidono è l’apertura del II Atto. Il Duca, in ansia per la sorte della fanciulla che è stata rapita, canta l’aria Parmi veder le lacrime. La bellezza della linea vocale permette agli ascoltatori di sperimentare in prima persona il fascino seduttore del personaggio.

L’aria sostituisce la scena in cui nel dramma di Hugo Blanche, riconosciuto nel suo innamorato il re Francesco I, nel tentativo di scappare, fugge in una stanza adiacente, rimanendo in trappola: il re la segue ridendo e mostrando al pubblico una chiave. Tale scena non poteva essere musicata da Verdi in un’opera già abbondantemente tenuta d’occhio dalla censura.

Venuto a sapere dai cortigiani che la fanciulla è nel palazzo, il Duca corre a raggiungerla. Dopo che Rigoletto, in Cortigiani, vil razza dannata, supplica per la liberazione della figlia, giunge Gilda. Ella canta la sua seconda aria: Tutte le feste al tempio. Il tema è affidato all’oboe, strumento simbolo dell’evoluzione di Gilda, che segnerà anche la maturazione di Violetta nell’Addio del passato dell’opera La Traviata.

Tradimento

Gilda dimostra di essere ancora una volta sottomessa al padre, al quale vuole confessare ciò che gli aveva tenuto nascosto e lasciando intendere cosa le è accaduto una volta rimasta da sola con il Duca. Di nuovo, Rigoletto la interrompe: secondo la morale dell’epoca, l’onta non è verso la giovane disonorata, ma verso la famiglia di lei. Nonostante l’interruzione del padre, Gilda dimostra un carattere vocale più maturo: adesso è in grado di presentare e mantenere una propria linea melodica mentre canta il secondo duetto con il padre. Anche se messa a tacere, il racconto del suo cambiamento, il momento di espressione personale continua attraverso la musica. L’incomunicabilità tra padre e figlia è evidente nella cabaletta Sì, vendetta, tremenda vendetta: sordo alla supplica di pietà della figlia, Rigoletto conduce furente il suo monologo invocando la morte del suo nemico.

La vera trasgressione di Gilda è andare contro il volere del padre amando il Duca. Nel III Atto, Rigoletto cerca di mostrarle quanto vane siano le promesse d’amore di un uomo così fatuo, ma Gilda non vuole sentire ragioni neanche davanti all’evidenza del tradimento. Nel quartetto Bella figlia dell’amore, dove partecipano anche il sicario Sparafucile e sua sorella Maddalena, assoldati da Rigoletto per uccidere il Duca, Gilda è distrutta dal dolore. La consapevolezza del tradimento non la trattiene dal farsi uccidere per salvare l’amato in una notte oscura e sinistra, mentre la tempesta si scatena fuori e dentro la fanciulla (notevole l’espediente di Verdi di impiegare il coro maschile a simulare l’ululato del vento).

Sacrificio e identità

Scoperto con orrore che dentro il sacco non c’è il cadavere del Duca, il quale rivela la sua presenza intonando nuovamente La donna è mobile, ma quello dell’amatissima figlia Gilda, Rigoletto imputerà alla maledizione di Monterone l’inevitabilità della tragedia, la sua «necessità» (Hugo riprende il concetto di «Ἀνάγκη – Anánkē»), escludendo qualsiasi azione autonoma e consapevole intrapresa dalla figlia. Nella sonorità eterea di flauto e violini, che adesso segnalano il distacco fisico del personaggio, Gilda spira tra le braccia di suo padre.

Seppure destinata inevitabilmente a soccombere come la maggior parte delle figure femminili nell’opera verdiana (a questo proposito, risulta calzante l’espressione «undoing of women»), Gilda scopre nell’amore per quel Duca senza nome la propria identità. Nonostante la sua esistenza sia stata segnata dalla costante assenza del nome, Gilda riesce infine, nel sacrificio estremo, a trovare il proprio “nome”.

Elisabetta Braga