Quando il realismo si tinge di fiaba: Jenůfa di Leoš Janáček

Appunti di melodia parlata

Jenůfa, opera in tre atti di Leoš Janáček, ebbe la sua prima esecuzione a Brno nella sala da ballo di un caffè il 21 gennaio 1904. Il titolo originale, La sua figliastra (Jeji pastorkyňa), fu modificato dopo la la traduzione in tedesco di Max Brod per il Metropolitan di New York del 1924, quando l’opera raggiunse la fama.

Stupisce pensare come fu rappresentata la prima volta, in quel caffè. L’orchestra, il cui colore risulta fondamentale per la drammaturgia dell’opera, era mancante di alcuni strumenti. Il Teatro Nazionale di Praga continuava a opporre un fermo rifiuto a una rappresentazione del capolavoro cui il compositore ceco aveva dedicato nove anni di gestazione, dolorosamente segnati dalla morte di entrambi i suoi figli.

Il motivo era da ricondurre allo «snobismo culturale» che tacciava di «folklorismo» il linguaggio musicale di Janáček.

Analogamente all’operato dei compositori della scuola nazionale russa e a quello di Béla Bartók, Janáček si era dedicato allo studio del folklore della sua terra, la Moravia, all’epoca fortemente influenzata dalla cultura tedesca. Il suo interesse si volse alla lingua parlata, in particolare alle diverse inflessioni della voce, anche le più microscopiche, che egli segnava accuratamente su alcuni taccuini. Le minuscole variazioni di ritmo e intonazione erano indizi preziosi per intuire una personalità, una situazione, un’emozione.

Dopo anni di studi, il nuovo stile compositivo fu impiegato ne La sua figliastra, spartiacque nella produzione del compositore, opera che vedrà il suo meritato successo al Teatro Nazionale di Praga il 26 maggio 1916, dopo aver subito, però, pesanti revisioni. La partitura come era stata pensata in origine ha visto la luce soltanto in tempi recenti.

Il nuovo stile

A differenza delle opere successive, per esempio Káťa Kabanová, Jenůfa non ha uno spiccato tematismo. L’espressione drammatica è resa con il cambio di ritmo e la variazione nell’accentazione, cui fa specchio la raffinata scrittura armonica, caratterizzata dal frequente uso dell’enarmonia. Fondamentale per la struttura drammatica è la simmetria tra le voci e il timbro orchestrale, risposta di Janáček al linguaggio operistico postwagneriano.

La fonte dell’opera è una pièce del 1890 della scrittrice ceca Gabriela Preissová, dal titolo omonimo. Come accade nel genere della Literaturoper, Janáček decise di mantenere il testo originale, in prosa, e la suddivisione in tre atti. Per l’epoca, non è comune la scelta di rivolgersi a una collaboratrice; non si contano, poco dopo Janáček, molti altri esempi illustri, come Arnold Schönberg e Marie Pappenheim per Erwartung e Maurice Ravel e Colette per L’enfant et les sortilèges.

Realismo e fiaba

Come sostiene Vladimir Propp, le fiabe sono le vestigia degli antichi riti d’iniziazione sopravvissute nella nostra memoria comune. Esse rappresentano la «varia casistica di vicende umane […], il catalogo di destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che è appunto il farsi d’un destino» (Italo Calvino).

Considerato lo stretto legame tra fiaba e realtà, la nostra vicenda comincia in un piccolo villaggio slavo, all’ombra di un mulino, come in una fiaba.

L’opera narra di Jenůfa e della sua matrigna, la Kostelnička (letteralmente “la sagrestana”). La ragazza è rimasta incinta di Števa, libertino del luogo, mentre Laca, suo innamorato, era partito per la leva militare. Una volta nato il bambino, la Kostelnička decide di ucciderlo per salvare l’onore suo e della figliastra.

Il sistema dei personaggi principali schiera due personaggi per lo stesso timbro vocale: Jenůfa e la Kostelnička sono entrambi soprani, Laca e Števa, i due giovani rivali, sono tenori. Elemento di ambientazione folklorica è il coro dei contadini, che appare nel primo e nel secondo atto.

Subito si intuisce il clima soffocante che ingabbia la vita di tutti i protagonisti, i cui destini, come i loro legami di parentela, sono indissolubilmente intrecciati.

All’apertura del sipario, l’orchestra presenta un ostinato ossessivo, rafforzato ulteriormente dallo xilofono, strumento dal duplice significato. Esso è il simbolo dell’inesorabile scorrere del tempo, circolare come le pale del mulino e le stagioni che si alternano tra gli atti dell’opera. Questa ripetizione ossessiva richiama anche l’idea di un’aderenza senza deviazione a determinate norme di comportamento sociale. Viene anche associato alla lama del coltello con la quale di lì a poco Laca ferirà Jenůfa al volto.

La fanciulla e Baba Jaga

Jenůfa, prima donna incinta del palcoscenico operistico, ripropone la figura della fanciulla buona e pura fin dalla sua entrata in scena: insegna a leggere a un pastorello e si dimostra una madre amorevole, anche se per brevissimo tempo. Il suo canto viene spesso associato al violino, il cui intervento solista emerge come una luce improvvisa dal tessuto orchestrale.

Personaggio tragico d’ascendenza shakespeariana, la Kostelnička è caratterizzata dall’assenza del canto: la sua freddezza si materializza in un lungo e austero recitativo, spesso su una sola nota. La Kostelnička si presenta come la matrigna cattiva, la «regina della notte che disprezza la figlia» e le getta addosso una colpa inesistente.

Come una strega, fa uso di un sonnifero per addormentare Jenůfa e agire a sua insaputa. Nel monologo del secondo atto, la donna decide di commettere l’infanticidio: l’orchestra cresce su un ritmo che accenna una danza allucinata, ripetendo ossessivamente una breve melodia discendente. La tessitura vocale raggiunge zone molte impervie, sfiorando il confine tra il declamato e l’urlo folle. Ecco musicalmente compiuta la sua trasformazione nella terrificante Baba Jaga delle fiabe slave, mentre si precipita ad abbandonare il piccolo tra i ghiacci del fiume. La sua figliastra è adesso libera di sposarsi.

Come per Lady Macbeth, il senso di colpa non la abbonderà più: le verrà ricordato dalla cupa melodia discendente dell’orchestra e dalla sensazione di bruciore alle mani.

Una «catarsi slava»

Due mesi dopo questi avvenimenti, la scena si apre con il coro che festeggia le nozze di Laca e Jenůfa. La situazione, allietata dalle danze di sapore tradizionale, precipita d’improvviso: i ghiacci, sciolti dalla primavera, restituiscono il cadavere del bimbo, che Jenůfa riconosce dalle fasce. La conclusione dell’opera sembra risolversi in una tragedia senza speranza.

La Kostelnička allora, per salvare Jenůfa dalla rabbia dei contadini, confessa il crimine. Inaspettatamente, Jenůfa perdona la matrigna: emerge il timbro dell’arpa, simbolo di elevazione. Il crescendo dell’orchestra rinforzato dai timpani segna il primo finale.

Il vero finale dell’opera spetta a Jenůfa e Laca, rimasti soli. Gli archi accennano alla melodia cantata da Mimì nell’ultimo atto della Bohème pucciniana («Sono andati? Fingevo di dormire»). Janáček mantiene fissa la ripetizione dell’inciso, mentre varia la sonorità orchestrale, che diventa sempre più grandiosa. Jenůfa ha perdonato Laca da tempo, il loro amore è diventato più maturo e consapevole. Sono entrambi pronti per cominciare insieme una nuova vita, lontano dal dolore.

«Strappare la maschera alla verità»

Il finale ci conduce verso una dimensione sospesa e spirituale. Gli elementi archetipici della narrazione fiabesca si innestano su una vicenda umana di sofferenza e catarsi, portatrice di un messaggio morale di redenzione e speranza.

Jenůfa racchiude in sé l’essenza del «paradosso Janáček». Nel tentativo di affrancare la sua patria dagli influssi esteri studiandone il folklore, il compositore elaborò un linguaggio musicale profondamente moderno e internazionale.

La ricerca della verità dell’espressione umana lo spinse al di là delle convenzioni e del concetto stesso di imitazione naturalistica. Il suo intento di «creare una melodia parlata dietro la quale appaia, come per miracolo, un essere umano colto in un momento della sua vita» aprì uno spiraglio «nelle nebbie» dell’animo umano, «un sentiero» fin dentro l’inconscio.

Elisabetta Braga