Forme del ricordo: memorie e reminiscenze musicali

E adesso?
Adesso… quando?
Adesso che hai detto questa cosa.
Ah, prima, quando hai detto il presente non esiste.
Sì, adesso.
Prima, no adesso. Mi dispiace, il presente non esiste, è illusione.

Ricordi? (2018) di Valerio Mieli

A pensarci bene il presente, se dovesse esistere, perderebbe la sua veridicità nel momento in cui lo si pensa. Non si fa in tempo a leggere questa frase che già fa parte del passato, seppur vicino, ed è proprio il passato a plasmare la nostra conoscenza, il nostro modo di essere. Strutturiamo la nostra persona basandoci sulle storie che abbiamo vissuto e che ci sono state raccontate, sulle memorie che custodiamo e con le quali siamo costretti a fare i conti. Talvolta perdono di contorno, sfumano e sembrano cambiare di forma e consistenza, eppure sono spesso i ricordi che ci permettono di comunicare, raccontarci, analizzarci.
Nella pratica strumentale la memoria è intesa in primis come sapere, conoscenza: prerogativa basilare di un solista che si rispetti, retaggio che permane dal romanticismo, è il riuscire a ricordare perfettamente il brano che esegue, tant’è che nella maggior parte dei concorsi è richiesto esplicitamente questo requisito. Per far ciò è necessario cercare i punti focali del discorso musicale, capire il funzionamento interno dell’armonia, dei temi, esplorare la partitura e trovare un’idea profonda difficile da estirpare e dimenticare. Il compositore non è ignaro a tutto ciò e gioca con rimandi, ripetizioni, temi sviluppati, letimotive ecc… Un brano di successo è spesso tale perché soddisfa due requisiti cruciali nell’ascoltatore: saper emozionare e saper essere ricordato.

L’aspetto della memoria viene però declinato da molti musicisti anche in maniera differente. In alcuni casi la memoria non è più aspetto conoscitivo o elemento sul quale far leva per trovare il consenso del pubblico, ma assume i contorni dello scavo psicologico verso un passato più o meno remoto, una rete di reminiscenze di infanzia o di momenti lontani, il tentativo di far tornare in vita qualcosa tramite i suoni.

Nostalgia del non vissuto

Esiste una parola finlandese, Kaukokaipuu, che descrive la malinconia che si prova nei confronti di un luogo in cui non si è mai stati. Sembra paradossale, ma il vivere sentimenti simili è più comune di quanto si pensi e soprattutto sembra avere un’influenza attiva nel corso degli eventi. Basti pensare che intorno agli anni ’10 del secolo attuale ha preso forma una corrente estetica e musicale denominata Vaporwave, il cui successo si basa sul tentativo (spesso riuscito) di suscitare nostalgia verso tempi passati onirici dalle tinte viola che non si sono mai vissuti. Una branca della Vaporwave italiana si caratterizza per l’utilizzo di suoni lo-fi e campionamenti di canzoni anni ’80 e ’90 reiterati in loop ipnotici, a spirale, conditi da una massiccia quantità di riverbero e sopratutto molto rallentati rispetto ai brani originali. Un ottimo primo approccio per i più curiosi è la versione vapor di Figli delle stelle, nel cui verso «non c’è tempo di fermare questa corsa senza fine che ci sta portando via» si avverte nitido un senso di tempo impossibile da recuperare, o il remix del brano contenuto nella storica pubblicità della cedrata Tassoni (quante cose al mondo puoi fare…) che ha contributo in maniera quasi virale all’espansione di questa corrente.

Ma se volgiamo lo sguardo a circa due secoli fa, più precisamente intorno al 1838, notiamo che il progetto di evocare ricordi, memorie e nostalgia è anche nelle intenzioni di Robert Schumann, con molta probabilità il compositore che meglio ha incarnato lo spirito del romanticismo. Le sue Kinderszenen (Scene infantili) op.15 rappresentano un ciclo di brevissimi quadri in musica che lo stesso compositore afferma essere «reminiscenze per adulti da parte di un adulto». A rincorrersi, Vicino al camino, Sul cavallo di legno sono solo alcuni dei suggestivi titoli utilizzati in questa raccolta, simile ad un album di foto di un’infanzia lontana che, nonostante non ci appartiene, ci manca e ci commuove. Dall’unione delle note, che come un poeta Schumann sapientemente forgia, emergono con precisione sensazioni di momenti passati probabilmente mai vissuti che però sembrano comporre un mosaico di memorie collettive che non pochi hanno esperito e che persiste da circa duecento anni.

I dolori del giovane Mahler

Nel piccolo paesino di Iglau, attualmente in Repubblica Ceca, abitò per lungo tempo Gustav Mahler. Oggi conosciamo il compositore per le sue sinfonie dalle gigantesche sonorità alternate a momenti di struggente lirismo, per i suoi cicli di lieder, e probabilmente sappiamo che all’intero di queste composizioni non è inusuale incappare in melodie popolari, marce, fanfare ecc… Questo perché Iglau era una terra di frontiera, al confine fra Moravia e Boemia, e in questo scenario liminale il giovane Mahler assorbì canti e danze del luogo, entrando in contatto con gruppi di musicisti itineranti chiamati bohmische Musikanten, ma anche ascoltando i suoni provenienti dalla caserma adiacente la distilleria del padre, le musiche di banda nei giorni festivi o le marce funebri durante i funerali. Tutto ciò contribuì a formare il suo personale bagaglio di impronte musicali, le sue Kinderszenen, che anche in questo caso emergono dall’inconscio per confluire nelle sue composizioni.

Ma se Schumann comunica con noi, ci vuole partecipi delle sue memorie, Mahler nasconde (anche se in bella vista) i suoi traumi e le sue immagini. Solo durante una seduta di psicanalisi con Sigmund Freud raccontò di un evento cruciale e segnante che lo accompagnò per gran parte della sua vita. Da piccolo, dopo aver assistito ad una violenta lite fra i genitori, si precipitò fuori di casa e proprio in quel frangente udì un musicista suonare una melodia popolare. Memore di questo fatto, confidò a Freud che per quel motivo nella sua musica, nei momenti di massima tensione e climax, irrompono improvvise fanfare, marce e canzoni di strada. È uno dei tanti simbolismi presenti, decifrabili però in maniera non immediata. Se nelle Scene di Schumann in molti possono immedesimarsi e addirittura evocare memorie comuni, nel caso di Mahler c’è un suo ricordo, suo solamente, che decide di condividere e resuscitare sotto forma di suono senza però avere necessità di spiegarlo. 

Ovunque alla fine dei tempi

In questa ultima sezione si tocca il fondo dell’abisso della memoria, quando tornare indietro significa perdersi per sempre.

Fra il 2016 e il 2019 vengono pubblicati sei album facenti parte di un progetto musicale denominato Everywhere at the End of Time del musicista britannico Leyland Kirby, ma userà lo pseudonimo The Caretaker, il Custode. Custode di cosa? 
Di memorie consumate che vanno a fuoco.

It’s just a burning memory è la prima traccia dello Stage 1, il primo album, e consiste in un campionamento della canzone Heartaches di Al Bowly del 1931. Il brano all’ascolto si presenta come un ripetersi a oltranza di un unico periodo musicale presente nella canzone originale, al quale viene aggiunto il crepitare di un giradischi e l’impressione di stare ascoltando qualcosa di rovinato. Più si va avanti con l’ascolto e più in queste ballate anni ’20/’30, leitmotiv estetico e poetico in tutti gli album, più la degradazione del suono aumenta e aumentano le ripetizioni e un senso di angoscia latente che con lentezza ci inabissa. Finché i brani non iniziano a disgregarsi e si perdono i contorni di ciò che definiamo musicale. I suoni diventano rumori, esplosioni, per approdare ad un silenzio finale intervallato da sparuti colpi sordidi, come a voler chiedere se c’è ancora qualcuno.

The Caretaker è voluto diventare il custode delle memorie che vanno a fuoco e l’ha fatto concretizzando in musica il processo di degenerazione cognitiva che provano le persone affette da demenza senile. I sei stage da lui realizzati sono una descrizione angosciosa ma puntuale (il progetto ha riscosso numerosi plausi dalla comunità scientifica) di ciò che accade dall’insorgere della malattia, quindi un ricordo lontano e piacevole che nonostante inizi a rovinarsi è ancora concreto, per poi scendere sempre più giù, dalla non accettazione della perdita di memoria ai prodromi di una confusione sempre maggiore fino al terrore e l’enorme, inquietante vuoto nello Stage 6 caratterizzato da un susseguirsi di rumori bianchi: si è giunti all’oblio.

Se in Schumann e in Mahler la reminiscenza è positiva o al massimo un momento di tensione estrema, qui il ricordo, o meglio, la mancanza di esso, è una condanna dalla quale non si può fuggire.

 

Gianmarco Tonelli